La storia di Badki

Agra, Uttar Pradesh. Da sfavillante capitale del grande impero Moghul e meta di milioni di turisti che ogni anno vengono ad ammirare il Taj Mahal, oggi Agra è diventata un megavillaggio in cui convivono poveri e ricchi, baracche e grandi centri commerciali, McDonald e fogne a cielo aperto.
Contraddizioni. Per strada ti capita di vedere bambini che vanno a scuola con la divisa e altri che a piedi nudi nelle pozzanghere e nel fetore dei loro escrementi aiutano i genitori a spalare il letame o a costruire mattoni. La confusione del traffico stradale regna sovrana come in tutta l’India. Automobili, risciò, furgoni, carri e animali. L’aria è irrespirabile al punto che si è costretti a coprirsi bocca e naso con lembi dei propri vestiti o con fazzoletti. In tutto questo, ad avere la meglio sono le vacche. Attraversano la strada e tutto il mondo si ferma, qualcuno suona il clacson e in quell’unico minuto di calma apparente ti fermi a guardare gli occhi della gente di questa terra dimenticata da Dio.
Camminando tra i vicoli dei bazar di Taj Ganj, è facile imbattersi in gruppi di ragazzini. Piccoli, magri, con gli occhi grandi e il sorriso bianchissimo, sporchi e con i capelli arruffati, ti saltellano attorno alla ricerca di cioccolata, qualche penna o qualche rupia. I più grandi si comportano già da adulti, cercando di concludere qualche affare con i turisti, mentre i più piccoli ti guardano con occhi curiosi.
 
Tra questi c’è Badki. Non avrà più di sei anni. Sporca e scalza, indossa un vestitino rosso e logoro, la pelle scura e i capelli cortissimi. Siede tutta sola all’angolo di una strada e giocherella con dei braccialetti che rappresentano il suo tesoro. Guarda un bambino che tiene in una mano un gelato e nell’altra quella della madre. “Lo vuoi un gelato?”, le chiedo. Lei abbassa lo sguardo. Capisco che si vergogna. Vado a prendergliene uno e cominciamo a parlare. Mi mostra tutta la mano, per dire  che ha cinque anni. Le chiedo dove siano i suoi genitori. Non risponde. Chiama da lontano la sorellina maggiore, rimasta fino a quel momento nascosta in un vicolo. “Noi viviamo lì”.  Dice indicando un telo di plastica steso a terra. Stanno lì tutto il giorno, aspettando che qualcuno dia loro qualcosa. “Chi si occupa di voi?” “ Io!”, risponde con fare serio Shalini, la più grande delle due. “Un giorno nostro padre ci ha chiesto di aspettarlo qui perché doveva sbrigare un affare, ma poi non è più tornato”. Si fa fatica a capire quello che dice: parla molto velocemente in un hindi stentato, ma riesco ancora a chiederle secondo lei che cosa sia successo e perché non è più tornato. Alza le spalle, sorride e mi dice che non lo sa.  “Papà tornerà, sono sicura, ma adesso posso fare quello che voglio e non devo più svegliarmi all’alba per andare a prendere l’acqua del pozzo”. “Andavi a scuola?” “Che cos’è scuola?” Chiede Badki. “No, quella è per i maschi, nostro fratello ci è andato una volta o due”. Rispose Shalini cercando di attirare l'attenzione.
 
Essere donna in India. In India nascere donna significa ancora rischiare la vita. E’ paradossale ma forse è meglio che Badki e Shalini siano state abbandonate. Una bambina è ancora considerata una bocca in più da sfamare che necessita di denaro per essere allevata, vestita, e sposata. D’istruzione neanche a parlarne. Nonostante la legge lo vieti molte bambine sono destinate a meno cibo e cure mediche se non addirittura eliminate fisicamente prima o dopo la nascita. Allo stesso tempo, però, ci sono sempre più giovani donne che s’iscrivono ai college, e che diventeranno medici, ingegneri, avvocati. L’India e le sue contraddizioni, l’eterno dilemma tra ricchezza e povertà. Badki e sua sorella sono state abbandonate, il loro è un futuro incerto ed è inutile immaginare che qualcun’ altro se ne occuperà, ma sono vive.
Mentre si allontanano tenendosi per mano, alcune scimmie si rincorrono sui pali della luce. La più piccola si stringe al ventre della madre con gli occhi sbarrati senza lasciarla un secondo, poco distante un’altra bambina tutta sola fruga a piedi nudi tra la spazzatura.


Francesca Mazza
dal sito www.peacereporter.net