Intervista a don EDY di Nicola Di Cilia (2014)

Allegato a Comunità in Cammino – El Castagner nr. 1 / 2024

Sono rimasto molto colpito e addolorato alla notizia della morte di don Edy Savietto. Di seguito, pubblico una lunga intervista che gli feci una decina di anni fa per Gli asini, la rivista di Goffredo Fofi (un'inchiesta sulle vocazioni adulte). Credo possa fare piacere a tutti coloro che l'hanno conosciuto e gli hanno voluto bene.

Don Edy Savietto, 42 anni, da poco parroco di Olmi (TV). Quando era cappellano della parrocchia del Duomo di Treviso - città non facile -, è stato animatore di diverse iniziative a favore dei senza dimora e degli immigrati. Anche don Edy ha un percorso singolare, e gli abbiamo chiesto di raccontarcelo.

Capelli rossi e ribelli, portati lunghi fin quasi alle spalle (assomiglia un po’ a Ian Anderson, il cantante-flautista dei Jethro Tull, ma lui preferisce Dostoevskij e Caravaggio: “pieni di contraddizioni ma vivi”), lo incontriamo di ritorno da un pellegrinaggio in Camargue con gli universitari della sua parrocchia; è un po’ affaticato perché il giorno prima ha partecipato a una maratona. Gli chiediamo di raccontarci come e quando ha capito di voler diventare prete.

Fino ai 18 anni la mia esperienza non si discosta da quella della maggioranza dei giovani. Sono nato in una famiglia cattolica, ho frequentato il catechismo, i sacramenti tutti in ordine; poi la crisi “normale” dopo la terza media, il contatto con la chiesa mantenuto tramite i genitori che non mi hanno permesso di allontanarmi completamente, mandandomi almeno alla messa domenicale.

Giocavo a calcio col Montebelluna [squadra allora in C2, vivaio di molte team di serie A, ndr], avevo la compagnia di amici, otto o nove ragazzi. Ero bravo a calcio, facevo i miei 5 allenamenti, i sabati e le domeniche in discoteca. Negli anni ’80 era la normalità, insomma. Il Montebelluna - io giocavo nelle giovanili - sfornava professionisti (ho conosciuto Buso, Toldo, Bressan), e, nonostante quel che si dice in genere del calcio, era un bell’ambiente. La mia palestra di gruppo è stata quella. In realtà era un po’ riempire il tempo con dei “non-scopi”, come li definirei adesso. Lavoravo il sabato e la domenica, cameriere in ristorante. Studiavo al liceo scientifico, con poco impegno, almeno i primi anni. Tra di noi, in compagnia, c’era una grande competizione, specie per le ragazze, chi ne aveva di più, la più bella... A 18 anni mi innamoro, una storia importante, lei - si chiama Alessandra - era più grande di me, studiava filosofia e mi ha dato un po’ di stabilità. Capita, però, un fatto, in contemporanea, un fatto che mi destabilizza: per la prima volta vengo messo in panchina. Devi capire che per me il calcio significava molto, in termini anche di identità e sicurezza: ero attaccante e, segnando anche parecchio, fare goal, vedere la gioia degli altri, godere del loro abbraccio, sentire il mio nome gridato, scritto sui giornali, era per me l’obiettivo primario, mi faceva vivere la settimana molto bene. Se non era tutto, poco ci mancava. Poi cambia l’allenatore, quello nuovo non mi considera - capita, e chiaramente tu pensi che non capisca niente di calcio - non mi fa giocare, anche se io mi impegno allo spasimo e cerco di recuperare in tutti i modi il posto perso. 17, 18 anni, ho avuto una crisi profonda di identità, tipica se vuoi degli anni - ma lo dicono sempre quelli che ne sono fuori. E lì vado in pallone, è proprio il caso di dirlo: mollo tutto l’impegno in generale, mi avvicino ai dark, che allora andavano di moda, nel vestire, nella musica che ascoltavo. Chi mi è stato vicino allora? Non tanto gli amici della compagnia, che comunque restava un’amicizia superficiale - ‘sto modo tutto maschile di non mostrare le proprie fragilità - quanto Alessandra, che mi ha aiutato almeno a non sprofondare eccessivamente verso il basso e un altro mio compagno di classe. Della scuola, poi, non parliamone: già mi allenavo svogliatamente a calcio - inedito per me - figuriamoci con lo studio... Vengo rimandato in inglese (siamo in quarta superiore), e decido di andare a studiare a Londra (lavorando come cameriere avevo un po’ di soldi), erano in primi anni che si potevano fare esperienze di vacanze studio... Ci vado e lì conosco un ragazzo di Montebelluna, di un anno più giovane, Fabrizio, anche lui in vacanza studio; diventiamo molto amici e scopro che fa uso di droghe, all’inizio credevo leggere. Aveva però un tenore di vita molto alto che dipendeva dal fatto che spacciava, ma a me non interessava. Diventa comunque un’amicizia molto forte, mi affascinava per il suo modo di vivere, molto controcorrente, anticonformista, certo, col senno di poi dico anche molto triste, però, allora... Tornati a Montebelluna, comincio a portarlo, tra il consapevole e l’inconsapevole, in quei posti dove sapevo che girava tanta “roba”.

A questo punto, devo fare un piccolo passo indietro e aggiungere un altro dettaglio: in quarta, era arrivato a scuola un nuovo insegnante di religione, al quale io risultavo simpatico. Dal momento che sai bene che è utile avere degli alleati in consiglio di classe, cercavo di corrispondere a questa simpatia. Questo prete, don Antonio, mi aveva proposto, a fine anno scolastico, di andare via con gli animatori della parrocchia di Montebelluna per una settimana di spiritualità a Spello, vicino Assisi. Io non conoscevo il significato di più di una parola tra tutte quelle che lui aveva nominato però gli ho risposto di sì, sempre per quel discorso di opportunità, per mantenere quel rapporto che poteva essermi utile. Ma poi neanche solo per opportunismo: fondamentalmente io ero l’uomo del sì per paura di rimanere da solo. In quegli anni, indossavo una sorta di maschera a seconda delle occasioni, a causa di una grande fragilità personale: una maschera con l’allenatore e i compagni di calcio, un’altra con Alessandra, un’altra con Fabrizio, un’altra con i miei, un’altra con questo prete... insomma, non capivo più neppure io chi davvero ero... Tutto questo salterà quando... no, procediamo con ordine. Arriva l’estate, l’estate dei miei 18 anni: per la prima volta ho la possibilità di passare con gli amici un paio di settimane a Jesolo, al mare, nell’appartamento di un amico; fino a allora non avevo mai avuto il permesso da parte dei miei. C’è una cosa che capita lì a Jesolo... Tieni presente: due settimane di completa libertà, di sfogo... ma verso la fine mi trovavo completamente svuotato. Una notte, in piazza Mazzini, dopo l’ennesima discussione tra di noi - due settimane, stanchezza, non ne puoi più di vedere gli altri - verso l’una, le due di notte, sono uscito in spiaggia, da solo e ho cominciato a camminare sulla spiaggia. Tra un pontile e l’altro, non so perché, ho ricominciato a pregare, dopo anni... Mi dicevo, seguendo il ritmo delle onde: “Se ci sei, dammi luce” e alla fine tra un pontile e l’altro, ho scritto col tallone sulla sabbia: “Dio ti voglio bene”, un po’ da esagerato, se vuoi, come può esserlo un adolescente inquieto. Mi sono seduto su un pontile, avevo gli U2 sul walkman, e mi sono messo ad ascoltarli. A un certo punto, era quasi l’alba, credo, arriva uno di quelli che fanno le sculture con la sabbia - si muovono presto -, legge la scritta, non c’era nessuno, solo io, quasi accartocciato in me stesso e mi si siede proprio accanto. Mi chiede se so chi ha scritto quella frase lì... “Non lo so - gli rispondo -  e non me ne frega niente”. “Chi ha scritto quella frase - mi dice - deve essere proprio una persona toccata da Dio”. La sua osservazione mi scivola addosso. Ma il giorno dopo - avevo dormito tutta la mattinata - torno in spiaggia e vedo che appena sopra la frase, quello aveva scolpito con la sabbia tutta una serie di figure animali e un uomo e una donna: anni dopo, una volta entrato in seminario, leggendo in Genesi il brano della creazione ho capito che quella notte lì io ero stato creato, o forse meglio, ricreato, ne ho avuto la certezza, sono sicuro che Dio aveva ascoltato le mie preghiere.

Ad ogni modo, tornato da Jesolo, come puoi immaginare, non volevo più andare via col prete a Spello - figurati! - , ma oramai l’avevo detto a mia mamma e quando arriva il momento lei mi costringe a andare, per cui, per non stare a questionare, vado. Era la fine d’agosto. E lì si è tutto ribaltato, perché se a Jesolo andavo a letto alle sei e mezza sette, lì, quella era l’ora della sveglia: dalla discoteca all’esperienza del silenzio assoluto - esperienza a me sconosciuta - e don Antonio che parlava di cose, tipo eucarestia, vita spirituale che per me suonavano come arabo. La cosa che mi rompeva di più, però, era che alla sera celebravano l’eucarestia, quindi un momento di gruppo, e sentire questi ragazzi che ringraziavano il Signore o chiedevano perdono, tutte cose che per me non erano comprensibili, mi fa faceva sentire una grande disagio e pur indossando in quel momento la maschera del bravo ragazzo di chiesa, una delle ragazze si accorge di questa mia finzione e mi dice: “Tu non me la racconti giusta...”. Effettivamente, le confesso di essere a disagio, mi sentivo un imbroglione... Lei mi suggerisce di parlarne con don Antonio, ma io, in un primo momento, mi spavento, dico di no, se avesse saputo davvero chi ero, dicevo... temevo insomma di perderne la stima. Il giorno dopo però mi decido di andare a parlargli. Lo trovo seduto su un muretto con quella che credevo fosse una sciarpa viola, in realtà era la stola. Infatti stava confessando, me ne ero dimenticato... Io era dalla confessione della cresima - quindi molti anni prima - che non mi ero più confessato. Mi siedo, con l’intenzione di dirgli che avevo deciso di tornare a casa, e lui mi guarda e fa: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Realizzo in due secondi che è la confessione... conflitto dentro di me... cosa faccio? E ho cominciato a raccontare - un vero calcio dello Spirito -, ho parlato per un’ora e mezza, continuamente, senza mai alzare lo sguardo dalla punta delle mie scarpe, cinque-sei anni che avevo dentro, tante cose, rotture, domande. Finisco, convinto che mi dica che potevo tranquillamente tornarmene a casa, invece mi mette la mano sulla testa, invoca la benedizione dello Spirito Santo e mi dà il perdono dei peccati. Quello che mi è capitato quel giorno è il punto centrale della mia storia, il punto di svolta se vuoi. Io, fino a quel momento, ero come una candela sotto una cappa di vetro, rantolavo, non avrei avuto molto tempo, dopo. Come se fosse sceso un martello enorme dal cielo e avesse spaccato questa campana di vetro in mille pezzi: ho ricominciato a respirare. Da quel giorno lì ho sentito tornare a fluire il sangue, questa era la netta sensazione. È cambiato tutto, io non ho più avuto paura e ho iniziato a sentire una profonda rassicurazione interiore: ci sono, mi sono detto, ci sono... Da lì riparto, anche se non era facile, ho dovuto reimparare tutto... Quando son tornato a casa, puoi immaginare, la mia compagnia che mi accoglie con domande del tipo: quante te ne sei fatte delle ragazze? E invece trovano uno che è andato a messa tutti i giorni... pensavano che fossi impazzito.

Ma il vero punto di rottura - quello di cui avevo accennato prima - giunge, però, quando, un paio di mesi dopo, a ottobre, mi arriva la telefonata che hanno trovato Fabrizio morto per overdose. Con Fabrizio avevo continuato a frequentarmi, senza cercare di evitare quei luoghi dove si spacciava. Mi sentivo responsabile. Questo mi spinge a tornare da don Antonio e da lì parte un cammino di ricerca più serio: lui diceva, e io ne sono convinto anche adesso, che il Vangelo di per sé è vivo oggi, quindi se tu lo leggi ci puoi trovare le risposte che cerchi. Figurati la sorpresa di mia mamma quando, in mezzo ai Lancio Story, agli Intrepido e agli altri fumetti, vede spuntare il Vangelo, che leggevo in modo molto primitivo, se vuoi: lo aprivo a caso, leggevo, mi chiedevo cosa volesse dirmi... che poi sono le più belle letture. Trovo una frase in cui si dice che Gesù, passando sul lago di Tiberiade, vide Andrea, Giacomo e Pietro e disse: “Venite, seguitemi” e subito, lasciate le reti, loro lo seguono. Quello mi si è piantato dentro. Mi ero lasciato da poco con Alessandra e allora, lì, decido di cominciare questo cammino. Don Antonio mi invita a partecipare alle riunioni del gruppo Diaspora, ne partecipo a alcune - anche perché continuavo a lavorare nei fine settimana -, e nell’agosto dell’anno successivo, nel ’91, decido di entrare in seminario, in quella che si chiama comunità vocazionale, dove subito mi trovo bene, sia per quello che studiavo che per la vita comunitaria, sia per le esperienze di tirocinio in parrocchia, accanto ai parroci. Anche se devo dire che, per quanto mi riguarda, su di me la figura del prete non ha esercitato fascino alcuno, io mi sono proprio innamorato di Cristo, poteva chiedermi qualsiasi cosa: questa strada, un’altra... però lì, in seminario, ho trovato un punto focale: come dice sant’Agostino, più Ti conosco, meglio conosco me stesso, più mi conosco, meglio Ti conosco.

Essere prete in questi tempi, è difficile?

Personalmente penso che questo nostro tempo sia un tempo favorevole, più di prima, perché cadute le ideologie, caduta anche l’ultima illusione legata all’economia, davvero c’è il deserto, e la società, più che liquida, mi sembra gassosa. Uno fa fatica davvero... Sono appena tornato da un pellegrinaggio in Provenza con questi universitari, splendidi, molto curati, ma dentro di loro... un labirinto. Ricchi di domande ma tutto però punta al loro ego. Se ascolti le loro preghiere, vedi che son tutte legate alla ricerca di una felicità e un benessere personali, la strada perfetta per finire in un vicolo cieco. Non sempre è facile parlarne con loro, proponendo una strada di passione, una passione per cui dare la vita: nel loro modo di pensare ciò non porta alla felicità, almeno per come loro la intendono. Eppure, qualcosa che ti faccia far fatica, che ti porti al limite, la passione di Cristo, è la via maestra. L’esperienza mia di prete sta tutta nel cercare di prendere questo... gas e dargli un punto dove solidificarsi. Stare in mezzo alla società senza la pretesa di salvare, dando tutto ciò che è possibile dare. Si tratta di fare la volontà di Dio, non la propria: anche questo oggi è difficile da capire per dei giovani abituati all’idea di libertà e di libera volontà. Più fai la volontà di Cristo più ritrovi la tua: io l’ho sperimentato su di me. Non è che Lui abbia tolto i miei peccati, le mie contraddizioni, le mie crisi, però è altrettanto vero, che mi ha dato un senso, anche nel significato di direzione. Speranza e fede senza carità sono sterili. Ma anche fare il bene senza fede serve a poco, la fede ti dà la misura: la fede non ti fa morire di paura, una paura che si lega al presente. Conosci la croce della Camargue? È un simbolo che mi piace [lo disegna su un foglio]: al centro della croce c’è il cuore, l’amore che pulsa; la base della croce è a forma di ancora: la speranza, che ti dà stabilità anche nelle tempeste e ti impedisce di andare alla deriva; alle estremità delle braccia c’è una sorta di bastone che usavano i mandriani per difendersi dall’attacco delle fiere: la fede che allontana le minacce. Si tengono insieme: togli una, le altre non stanno.

Ma le difficoltà per un prete oggi son legate anche a un impianto ecclesiologico da ripensare, per certi versi: per che cosa son diventato prete? Son 16 anni che sono prete, passata l’emotività iniziale, c’è bisogno di generare, di dare alla luce. Sono nell’età di mezzo, in cui senti impellente di trovare una ragione per morire... Con Papa Francesco le cose stanno un po’ cambiando, ma finora, come Chiesa, avevamo abbassato molto il livello, quasi a una gestione burocratica e arroccata, quasi a dover tirare su muri, difendendosi e accusando a destra e sinistra. Secondo me è la mancanza di grandi sfide... adesso la sfida è qui, ma bisognerebbe trovare qualche, passami la metafora, qualche generale che abbia il coraggio di grandi campagne. L’energia c’è, la voglia c’è. Il tempo è quello giusto. Altrimenti uno si imborghesisce... se vuoi la vita da prete è anche una bella vita, sei single, hai una casa, un riconoscimento sociale - almeno nelle nostre zone ancora c’è - uno stipendio. Il rischio è di un imborghesimento dell’anima.